mercoledì 6 giugno 2018

Sant agostino

(354-387)Modifica

Agostino, di etnia berbera,[12] o punica come egli stesso ci tramanda,[13] ma di cultura fondamentalmente ellenistico-romana, nacque il 13 novembre del 354 d.C. a Tagaste(attualmente Souk Ahras, in Algeria, situata a circa 70 km a sud-est di Ippona, l'odierna Annaba), che era a quei tempi una piccola città libera della Numidia proconsolare, recentemente convertita al Donatismo.
Apparteneva a una famiglia del ceto medio, ma non facoltosa: il padre, Patrizio, piccolo possidente terriero e membro dei curiales(consiglieri municipali) della città, era un pagano; di animo benevolo, anche se collerico, impetuoso e a volte infedele alla moglie Monica, madre di Agostino,[14] proprio per influenza di quest'ultima alla lunga giungerà alla conversione, morendo cristiano verso il 371 d.C.[11]Monica era infatti di religione cristiana, una donna intelligente, affettuosa e di carattere forte.[11] Agostino ebbe anche un fratello, Navigio, che sarà a Cassiciaco in Brianza per battezzarsi, e una sorella di cui non si conosce il nome, ma della quale si sa che, rimasta vedova, diresse un monastero femminile fino alla morte.[11]

Infanzia e adolescenzaModifica

Agostino recepì dai suoi genitori due opposte visioni del mondo, da lui spesso vissute in conflitto tra loro. Sarà tuttavia la madre, venerata tutt'oggi come santa dalla Chiesa cattolica, a esercitare un grande ruolo nell'educazione e nella vita del figlio,[11] che dirà: «A lei debbo tutto ciò che sono».[15]Agostino nelle sue opere parla invece del padre come di un estraneo.[16] Agostino ricevette da lei un'istruzione cristiana e fu iscritto fra i catecumeni. Una volta, quando era molto malato, chiese il battesimo, ma, essendo presto svanito ogni pericolo, decise di differire il momento della ricezione del sacramento, adeguandosi ad una diffusa usanza di quel periodo. La sua associazione con "uomini di preghiera" lasciò tre grandi concetti profondamente incisi nella sua anima: l'esistenza di una Divina Provvidenza, l'esistenza di una vita futura con terribili punizioni e, soprattutto, Cristo il Salvatore.
« Fin dalla mia più tenera infanzia, io avevo succhiato col latte di mia madre il nome del mio Salvatore, Tuo Figlio; lo conservai nei recessi del mio cuore; e tutti coloro che si sono presentati a me senza quel Nome Divino, sebbene potesse essere elegante, ben scritto, ed anche pieno di verità, non mi portarono via. »
(Confessioni, I, IV)
Africano di nascita, utilizzò soprattutto il latino nei suoi scritti. Non ebbe molta dimestichezza con il greco, lingua studiata in giovane età ma non amata, mentre la conoscenza del punico è stata messa in discussione da taluni studiosi.[17] Patrizio, orgoglioso del successo del proprio figlio nelle scuole di Tagaste e Madaura, decise di mandarlo a Cartagine per prepararlo alla carriera forense, ma ci vollero molti mesi per raccogliere il denaro necessario, e Agostino passò il suo sedicesimo anno a Tagaste, in un ozio in cui si scatenò una grande crisi intellettuale e morale. Egli stesso avrebbe in seguito narrato come, dominato da una profonda inquietudine, venisse risucchiato in un vortice di passioni, e provasse quasi attrazione per il peccato, come avvenne per esempio in occasione del celebre furto delle pere, che Agostino organizzò insieme ad alcuni coetanei:
« Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello se eri un furto; anzi, sei "qualcosa" per cui possa rivolgerti la parola?[18] Belli erano i frutti che rubammo... ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. »
(Confessioni, II, 6, 12)

"Crisi" cartagineseModifica

Agostino e la madre Monica
All'inizio della crisi pregava, ma senza il sincero desiderio di essere ascoltato, e quando all'età di diciassette anni giunse a Cartagine, verso la fine del 370, ogni situazione che gli capitava lo portava a deviare sempre di più dall'antico corso della sua vita: le molte seduzioni della grande città che era ancora per metà pagana, la licenziosità degli altri studenti, i teatri, l'ebbrezza del suo successo letterario e uno smisurato desiderio di essere sempre il primo, anche nel peccato.[19] In questa città, appassionandosi di filosofia, iniziò a studiare la maggior parte dei testi principali della cultura ellenistico-latina. Dotato di un forte senso critico e animato da un desiderio bramoso di verità, passò gli anni della sua gioventù nella ricerca insaziabile del senso della vita. Non molto tempo dopo essere giunto a Cartagine, però, Agostino fu costretto a confessare a sua madre Monica di avere una relazione con una donna, che gli aveva dato un figlio, Adeodato (372), e con la quale visse in concubinato per quindici anni. Si separarono nel 386, quando ella lo lasciò a Milano per recarsi in Numidia con la promessa che sarebbe tornata. Agostino non ne riporta il nome in alcun testo.
Esistono pareri contrastanti nella valutazione di questa crisi. Alcuni, come Theodor Mommsen, la evidenziano, altri come Friedrich Loofs rimproverano a Mommsen questa conclusione o si dimostrano clementi verso Agostino,[20] quando affermano che, a quei tempi, la Chiesa permetteva il concubinato.[21] Agostino mantenne comunque una certa dignità e, fin dall'età di diciannove anni, mostrò un genuino desiderio di uscire da quella condotta dissoluta: nel 373, la lettura dell'Hortensius di Marco Tullio Cicerone, oggi andato perduto, provocò un cambiamento di direzione nella sua vita. Si imbevve dell'amore per la saggezza che Cicerone così eloquentemente encomiava e, da quel momento, Agostino considerò la retorica soltanto una professione, da esercitare in qualità di insegnante. Il suo cuore si era completamente volto alla filosofia.[22]

Approdo al ManicheismoModifica

Nel 373 la sua ansia per la ricerca dell'assoluto lo fece approdare al Manicheismo, di cui, insieme al suo amico Onorato, divenne uno dei massimi esponenti e divulgatori. Agostino stesso narra che fu attratto dalle promesse di una filosofia libera dai vincoli della fede; dalle vanterie dei manichei che affermavano di aver scoperto delle contraddizioni nelle Sacre Scritture; e, soprattutto, dalla speranza di trovare nella loro dottrina una spiegazione scientifica della natura e dei suoi fenomeni più misteriosi. La mente indagatrice di Agostino era entusiasta per le scienze naturali ed i Manichei dichiaravano che la natura non aveva segreti per Fausto di Milevi, il loro dottore.[23] Tuttavia, tale adesione non fu scevra da dubbi che l'attanagliavano: essendo torturato dal problema dell'origine del male, Agostino, nell'attesa di risolverlo, diede credito all'esistenza di un conflitto tra due principi. C'era, inoltre, un fascino molto potente nell'irresponsabilità morale che risultava da una dottrina che negava la libertà ed attribuiva la commissione di crimini ad un principio esterno. Una volta unitosi a questo gruppo, Agostino gli si dedicò con tutto l'ardore del suo carattere; ne lesse tutti i libri, adottò e difese tutte le sue idee. Il suo attivissimo proselitismo convinse anche i suoi amici Alipio e Romaniano, i suoi mecenati di Tagaste, gli amici di suo padre che stavano sostenendo le spese dei suoi studi.
Fu durante questo periodo manicheo che le facoltà letterarie di Agostino giunsero al loro pieno sviluppo, quando era ancora un semplice studente di Cartagine.

InsegnamentoModifica

Al termine dei suoi studi sarebbe dovuto entrare nel forum litigiosum, ma preferì la carriera letteraria. Possidio narra che tornò a Tagaste per "insegnare la grammatica". Il giovane professore incantò i suoi alunni, uno dei quali, Alipio, appena più giovane del suo maestro, per non lasciarlo dopo averlo seguito tra i Manichei, fu in seguito battezzato insieme a lui a Milano, per poi, probabilmente, diventare vescovo di Tagaste, la sua città natale.
Monica era profondamente dispiaciuta per l'eresia di Agostino e non l'avrebbe neanche ricevuto in casa o fatto sedere alla sua tavola, se non fosse stata consigliata da un vescovo che dichiarò che "il figlio di così tante lacrime e preghiere non poteva perire". Poco tempo dopo Agostino tornò a Cartagine, dove continuò ad insegnare retorica. I suoi talenti gli furono anche di maggiore vantaggio su questo palcoscenico più grande e, attraverso un'infaticabile ricerca delle arti liberali il suo intelletto raggiunse la piena maturità. Qui vinse un torneo di poesia ed il proconsoleVindiciano gli conferì pubblicamente la corona agonistica.
Fu in questo momento di ebbrezza letteraria, quando aveva appena completato il suo primo lavoro sull'estetica (ora perso) che Agostino cominciò a ripudiare il Manicheismo. Anche quando era nel suo massimo entusiasmo, tuttavia, gli insegnamenti di Mani erano stati lontani dal calmare la sua inquietudine. Nonostante fosse stato accusato di essere diventato un prete della "setta", non fu mai iniziato o enumerato fra gli "eletti", ma rimase un "uditore", il grado più basso nella gerarchia. Egli stesso fornì le ragioni del suo disincanto: prima di tutto l'inclinazione della filosofia manichea - "Distruggono tutto e non costruiscono nulla" -; poi la loro immoralità in contrasto con la loro apparente virtù; quindi la debolezza delle loro argomentazioni nella controversia con i "cattolici", ai cui precetti basati sulle Scritture la loro unica replica era: "Le Sacre Scritture sono state falsificate".
Ma la ragione principale fu che tra loro non trovò la scienza a cui anelava, ossia quella conoscenza della natura e delle sue leggi che gli avevano promesso. Quando li interrogava sui movimenti delle stelle, nessuno di loro era in grado di rispondergli. "Attendi Fausto", gli dicevano, "lui ti spiegherà tutto". Finalmente, nel 383Fausto di Milevi, il celebre vescovo manicheo, giunse a Cartagine. Agostino gli fece visita e lo interrogò,[23] ma scoprì nelle sue risposte solo volgare retorica, assolutamente estranea a qualsiasi cultura astronomica e matematica.[24] L'incantesimo si ruppe e, anche se Agostino non abbandonò immediatamente il gruppo, la sua mente iniziò a rifiutare le dottrine manichee.
Ambrogio, arcivescovo di Milano

Incontro con AmbrogioModifica

Nel 383 Agostino, all'età di 29 anni, cedette all'irresistibile attrazione che l'Italia aveva per lui; a causa della riluttanza della madre a separarsi da lui, dovette ricorrere a un sotterfugio e imbarcarsi con la copertura della notte. Non appena giunto a Roma, dove continuò a frequentare la comunità manichea, si ammalò gravemente. Quando guarì aprì una scuola di retorica ma, disgustato dai trucchi dei suoi alunni, che lo defraudavano spudoratamente delle loro tasse d'istruzione, fece domanda per un posto vacante come professore a Milano. Il praefectus urbi Quinto Aurelio Simmaco l'aiutò a ottenere il posto con l'intento di contrastare la fama del vescovo Ambrogio.[25] Dopo aver fatto visita al vescovo, però, si sentì attratto dai suoi discorsi e iniziò a seguire regolarmente le sue predicazioni.

Neoplatonismo e CristianesimoModifica

Agostino tuttavia fu travagliato da tre ulteriori anni di dubbi, durante i quali la sua mente passò attraverso varie fasi. In un primo tempo si volse verso la filosofia degli Accademici, attratto dal loro scetticismo pessimistico, deluso com'era dal manicheismo e diffidando ormai di ogni forma di credenza religiosa. Lo tormentava più di tutti il problema del male: se Dio esiste ed è onnipotente, perché non riesce ad annientarlo?
« Tali pensieri volgevo nel mio petto infelice, gravato da preoccupazioni tormentosissime, perché temevo la morte e non avevo trovato la verità. Pure rimaneva ferma stabilmente nel mio cuore la fede cattolica nel «Cristo tuo, Signore e Salvatore nostro»[26], una fede ancora informe sotto molti aspetti, e fluttuante al di fuori della dottrina, eppure il mio animo non l'abbandonava. »
(Confessioni, VII,5)
Ma fu poi decisivo l'incontro con la filosofia neo-platonica, dalla quale rimase entusiasmato. Aveva a mala pena letto le opere di Platone e di Plotino, quando gli si accese nuovamente la speranza di trovare la verità. Ancora una volta cominciò a sognare che lui ed i suoi amici potessero condurre una vita dedicata alla ricerca di essa, una vita priva di tutte le aspirazioni volgari come onori, ricchezza, o piacere, e con il celibato come regola.[27] Ma era solo un sogno; le sue passioni lo rendevano ancora schiavo.

L'islam e maometto

Gli arkān al-Islām ("Pilastri dell'islam") sono i cinque doveri assolutamente cogenti per ogni musulmano osservante (pubere e sano di corpo e di mente) per potersi definire a ragione tale. Essi sono:
  • la shahāda, o "testimonianza" di fede 
"Testimonio che non c'è divinità se non Dio (Allàh) e testimonio che Muḥammad è il Suo Messaggero"
Per essere valida, la shahāda deve essere recitata con piena comprensione del suo significato e in totale sincerità di intenti.[16]Essa è sufficiente, da sola, a sancire l'adesione all'islam di chi la pronuncia
  • la ṣalāt , preghiera canonica da effettuare 5 volte al giorno, in precisi momenti (awqāt) che sono scanditi dal richiamo (in arabo أَذَانadhānaudio[?·info]) dei muezzin (in arabo مؤذنmuʾadhdhin), che operano nelle moschee (oggi spesso sostituiti da registrazioni diffuse con altoparlanti);
  • la zakāt (in arabo زكاة), versamento in denaro - obbligatorio per ogni musulmano che possa permetterselo - che rende lecita la propria ricchezza; da devolvere nei confronti di poveri e bisognosi. Nella quasi totale assenza ormai dello Stato tradizionale percettore - che era dotato di appositi funzionari (ʿummāl, pl. di ʿāmil) con ampi poteri cogenti - la zakāt è oggi prevalentemente autogestita dal pio musulmano, anche se esistono organizzazioni che forniscono aiuto ai fedeli per raccogliere fondi da destinare a opere di carità, per la cui realizzazione la giurisprudenza islamica ha previsto da sempre l'utilizzo delle somme raccolte tramite questa pratica canonica.[18] La somma da versare, a cadenza annuale, viene calcolata sulla base di un imponibile del 2.5% sul capitale finanziario del fedele, e vale anche per le aziende. L'OCHA ha calcolato che i volumi annuali di tali versamenti sono, come minimo, superiori anche di quindici volte ai valori totali delle donazioni a livello mondiale;[19][20]
  • Ṣawm ramaḍān (in arabo صوم رمضان), ovvero digiuno - dal sorgere al tramonto del sole - durante il mese lunare di Ramadan per chi sia in grado di sostenerlo senza concrete conseguenze negative per la propria salute;
  • ajj (in arabo حج), pellegrinaggio canonico alla Mecca e dintorni almeno una volta nella vita, nel mese lunare di Dhū l-ḥijja, per chi sia in grado di sostenerlo fisicamente ed economicamente.
In ambienti come quelli sciitakharigita e sunnita-hanbalita si aggiunge un sesto pilastro: il jihād (in arabo ﺟﻬﺎﺩ),[21] ma se nella sua accezione di "jihād maggiore" (akbar, dice la giurisprudenza), teso cioè a combattere gli aspetti più deteriori dell'animo umano, esso è accettato da ogni scuola di pensiero sunnita come un potenziale sesto pilastro, la sua accezione di "impegno sacro armato" è talmente densa di condizioni e limitazioni da non consentire che il "jihād minore" (jihād aghar) sia accettato sic et simpliciter dal madhhab hanafitamalikita e sciafeita come sesto degli arkān al-Islām.
I musulmani dichiarano che la loro religione si riallaccia direttamente alle tradizioni religiose che sarebbero state predicate dal patriarca biblico Abramo, considerato da Maometto come il suo più autorevole predecessore. La ragione è che l'islam è (almeno inizialmente) la religione degli arabi, discendenti da Ismaele, mentre gli ebrei sarebbero i discendenti da Isacco e i cristiani sarebbero gemmati dall'ebraismo come una setta ebraica che con Paolo di Tarso iniziò ad accogliere anche i non-ebrei. E Ismaele e Isacco erano figli di Abramo, sebbene il primo fosse di madre araba e il secondo israelita (fatti tuttavia senza particolare significato in una cultura patrilineare e patriarcale). È per questo che, in chiave puramente formale, l'islam viene classificato come religione abramitica, al pari dell'Ebraismo e del Cristianesimo.
Il primo profeta islamico sarebbe peraltro stato Adamo e, dopo di lui, Nūḥ (Noè). Sono annoverati fra i tanti profeti islamici, dopo Ibrāhīm (Abramo), suo cugino Lūt, i suoi figli Isḥāq (Isacco) e Ismāʿīl (Ismaele), Yaʿqūb (Giacobbe), Yūsuf (Giuseppe), Mūsā (Mosè), Dāwūd (Davide), Sulaymān (Salomone), Yaḥyā (Giovanni Battista) e, prima di Muḥammad, ʿĪsā ibn Maryam (cioè Gesù di Nazareth, figlio di Maryam, ossia colei che in altro contesto è chiamata Maria),[59] Maria è considerata anche nel Corano come esempio sublime di devozione femminile a Dio.
Alcuni profeti citati dal Corano non sono usualmente identificati con quelli biblici, o la loro identificazione è dubbia: Idrīs (principali proposte Enoch e Esdra), Ṣāliḥ (probabilmente il biblico Sela), Hud (per alcuni Eber), Shuʿayb (proposto Ietro, accomunati dal fatto di essere entrambi Madianiti), Dhū l-Kifl (proposti Giobbe ed Ezechiele), Dhū l-Qidr o Dhū l-Qadir (il suo racconto è ispirato a quello del babilonese Ūmnapīštīm, non c'è equivalente giudeo-cristiano) e Dhū l-Qarnayn (Il Bicorne), identificato principalmente con Alessandro Magno o Ciro il Grande, ma anche con Salomone.
Dopo Maometto, chiamato per questo "il sigillo dei profeti" (khātim al-anbiyāʾ), è un dogma per l'islam che la profezia abbia termine e credere nella riapertura del ciclo profetico è senz'altro considerato dal sunnismo e dallo sciismo kufra (infedele).
I testi fondamentali a cui fanno riferimento i musulmani sono, in ordine di importanza:
  • il Corano (letteralmente "Recitazione"), che è considerato dai musulmani espresso parola per parola da Dio (Allah). I musulmani ritengono che Maometto abbia ricevuto il Corano da Dio attraverso l'Arcangelo Gabriele, che glielo avrebbe rivelato in lingua araba.[63] È per questo che i fondamentali atti liturgici islamici sono recitati in tale idioma in tutto il mondo musulmano. Dopo la Rivelazione ricevuta da Maometto l'islam crede, per dogma, che nessun altro profeta sarà più identificato da Dio fra gli uomini. Secondo i fedeli, il Corano non venne messo immediatamente per iscritto: Maometto, secondo un'ipotesi fatta propria anche dai musulmani, sarebbe stato analfabeta,[64] e il Corano sarebbe stato perfettamente assimilato da lui per grazia divina, così da poterlo recitare senza esitazioni e impacci ai suoi seguaci che, sovente, lo memorizzarono a loro volta. Solo più tardi (sotto il califfo Uthman) fu messo per iscritto (dai kuttāb) e sistemato con una serie di accorgimenti grafici (i punti diacritici delle varie consonanti arabe omografe e le vocali, o ḥarakāt), all'epoca del governatorato dell'omayyade al-Ḥajjāj b. Yūsuf, verso la fine del VII secolo-inizi dell'VIII. Epoca dopo la quale il testo sacro è rimasto assolutamente immutato, ma prima della quale una parte dello sciismosostiene che - malgrado la sacralità e l'autenticità del Libro sacro dopo la Vulgatadi al-Hajjaj ibn Yusuf debba essere appieno riconosciuta - il Corano sia stato però mutilato di alcuni passaggi relativi al ruolo preminente di 'Ali ibn Abi Talib e dei suoi discendenti. Il lavoro più completo sul tema è il Kitāb al-qirāʾāt (o Kitāb al-tanzīl wa l-taḥrīf) di Aḥmad ibn Muḥammad al-Sayyārī (IX secolo)[65] e l'ultimo quello di Mīrzā al-Nūrī al-Ṭabarsī/Ṭabrisī col suo Faṣl al-khiṭāb.[66]
  • la Sunna (letteralmente "consuetudine") è costituita da una serie di detti, fatti, silenzi o inazioni, di Maometto. Essa è dunque basata su ḥadīth (tradizioni giuridico-religiose), raccolti e tramandati da testimoni ritenuti sicuri. È stata messa in forma scritta solo nel III secolo del calendario islamico (IX secolo) nei Sei libri (al-kutub al-sitta), i più importanti dei quali sono universalmente considerati dai musulmani quelli di Bukhārī e di Muslim mentre gli altri furono composti da Ibn Mājaal-Nasāʾīal-Tirmidhī e Abū Dāwūd al-Sījistānī. Gli sciitiaffiancano loro le opere quali l'al-Kāfī fī ʿilm al-dīn di Abū Jaʿfar Muḥammad b. Yaʿqūb al-Kulaynī/al-Kulīnī (m. 939); il Kitāb man lā yaḥḍuruhu l-faqīh di Abū Jaʿfar Muḥammad b. ʿAlī, altrimenti noto come Ibn al-Bābūya (o Bābawayh) al-Qummī (m. 991) e il Tahdhīb al-aḥkām di Abū Jaʿfar Muḥammad b. al-Ḥasan al-Ṭūsī (m. 1067 o 1068).
I musulmani credono che siano d'ispirazione divina, ma corrotti dal tempo o dalla malizia degli uomini:
Il dilemma se trattare gli induisti come politeisti cui offrire l'opportunità fra conversione o morte fu superata grazie all'interpretazione di numerosi dotti musulmani, secondo cui anche i Vedasarebbero stati un testo d'origine divina, per quanto particolarmente corrotti.
Accanto alle sacre scritture, e da esse direttamente ispirata, v'è un'immensa letteratura prodotta nei secoli dalla comunità dei dottori appartenenti sia all'islam sunnitasia a quello sciita: testi di fiqh(giurisprudenza), di kalām (teologia), di tasawwuf (mistica). Non è da trascurarsi infine che, soprattutto per quanto riguarda la mistica islamica o sufismo, molta pregevole letteratura è stata prodotta in versi da autori di espressione araba e persiana soprattutto, ma anche in turco, urdu ecc.